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Libri & Cultura: La solitudine dei numeri primi

L’atmosfera evocata da Paolo Giordano ne La solitudine dei numeri primi (Mondadori, 2008, 304 pp.) è la stessa che si respira nell’omonimo film di Saverio Costanzo uscito nelle sale alcune settimane fa e che ha riportato alla ribalta il romanzo da cui trae ispirazione e origine. Un’atmosfera cupa e fredda è quella in cui si muovono i protagonisti dell’opera, incatenati tra il loro disagio interiore e l’impossibilità – o meglio l’incapacità - di trovare un punto di contatto con il mondo circostante.
Se c’è un pregio nella scrittura di Giordano, è proprio la capacità di rendere a parole l’ineluttabilità e la solitudine dei suoi personaggi, stretti in una morsa interiore ed esteriore, incapaci di vivere una vita sana e “normale”, schiavi del loro passato e indifferenti di fronte al futuro. Una sensazione che pervade il romanzo fin dall’inizio, e quindi una condizione che accompagna Mattia, Alice e gli altri dall’infanzia all’età matura, come una costante duratura e inesorabile: una sensazione che corrisponde a un “segreto” tremendo, indicibile, incomprensibile al mondo comune. Il “segreto” è la chiave di lettura del libro: le figure di adolescenti che incontriamo nel corso della narrazione - ma anche gli adulti - sembrano nascondere un mistero terribile, che li rende in qualche modo colpevoli e li costringe a espiare la pena sulla propria pelle. Ecco perché spesso ci troviamo di fronte a situazioni statiche, ferme, morte: il destino di ognuno è già stato deciso, e contro questa ineluttabilità le persone sembrano poter fare ben poco. La continua sensazione di immobilità che si respira leggendo le pagine di Giordano è lo specchio dell’animo dei suoi personaggi: incapaci di adeguarsi alle maschere vacue e inconsistenti del mondo, essi sono emarginati e cercano l’esclusione dal gruppo, dalla società, come unico sollievo alle proprie sofferenze interiori.
Giordano riesce quindi in questa descrizione forse eccessivamente cupa della realtà, a volte mostrando una certa monotonia nelle immagini e nelle azioni narrate: la ripetitività diventa una scelta stilistica dettata dall’esigenza di proporre una visione delle cose riletta - chiaramente – dal punto di vista dei protagonisti.
L’autore è abile nel lasciar passare questo messaggio: l’atmosfera cupa e solitaria in cui le persone agiscono all’interno del romanzo si sovrappone così e si identifica con ciò che essi pensano realmente ed effettivamente vivono nel loro intimo. La realtà che ne viene fuori è quindi reinterpretata dal loro punto di vista, che a volte si confonde con quello dell’autore stesso. Ne emerge un quadro complessivo di estrema angoscia e rassegnazione, in cui Mattia e Alice rimangono prigionieri delle loro convinzioni e schiavi delle loro paure.
Non c’è un minimo bagliore di speranza nel romanzo di Giordano (così come non ne troviamo nell’omonimo film). O meglio: qualche luce si intravede appena in rare occasioni, ma è subito offuscata dall’atteggiamento totalmente passivo dei personaggi della vicenda i quali, pur di non vivere a pieno la propria vita, preferiscono condannarsi all’infelicità, come se questo fosse per loro un destino già fissato e ineluttabile, una condizione voluta da altri. Una vera condanna.
Le scelte si fanno in pochi secondi e si scontano per il tempo restante. Ecco l’insegnamento che Mattia apprende dall’esperienza. La paura di sbagliare (perché gravi errori sono stati già commessi in passato) lo costringe però a non essere mai se stesso, a non aprirsi nemmeno con le persone amate. Questo sforzo continuo dei protagonisti, immobili anche nel loro percorso interiore, genera nel racconto un’atmosfera del tutto surreale, nella quale non si intravedono sviluppi psicologici e percorsi di maturazione. Come se tutto accadesse all’interno di una bolla, separato dal tempo, privato di quei sapori che solo le relazioni vive portano con sé.

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