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Lampedusa: il silenzio e le balene

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L’occhio della telecamera abbraccia con un unico sguardo i cadaveri e i colori sgargianti delle carrette del mare. Lo speaker ha già finito il suo compito. Invano aspetto che il numero dei morti e dei dispersi faccia effetto. Niente. Le meste statistiche del caso non hanno il potere di impietosire, tanto meno di indignare.

La coscienza non ne sembra turbata; e quel che la memoria serba del balletto delle cifre si dissolve mentre guardo come la risacca si trascina via un po’ di sabbia. Una morte serena si direbbe. Niente di ché: giovani d’altre terre che si avventurano nel mare e poi…il mare è grande e burrascoso. Succede che perdono la rotta e non sanno più ritornare. E allora cosa volete, loro ce la mettono tutta ma il mare è immenso. Immenso e terribile. E poi avete presente le balene? Quelle che ogni tanto per misteriose ragioni si arenano e vengono a morire dalle nostre parti. Ecco la morte di questi giovani ragazzi è un po’ come quella delle balene. Molto simile. Ci sono i soccorritori e c’è l’acqua per rinfrescare. E poi? E poi basta c’è solo il silenzio e poi si muore.

Sì ma dov’è il pianto delle madri?
No, le madri non sanno: stanno lontano, troppo lontano.

E poi lo vedete? Il silenzio? Fisico di spettri e di lontananza piena, ottusa. Che cosa vi aspettavate, urla e devastazioni? Qui non siamo in Siria, dove i morti si dividono in martiri e vittime e dove il fatto della morte è sostanziato dal rosso del sangue, dal dolore e dall’odio di chi resta… NO qui né pianti né rivendicazioni. Questa, l’ho già detto, è una morte serena, nuda e solitaria.
Spiaggiata, come quella delle balene.



da Mohamed Malih
 






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